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Gli erbivori trainano la rinascita del reef
Il reef corallino è un ambiente estremamente mutevole, poiché è continuamente esposto alla forza delle onde e delle tempeste, all’estremo calore del sole equatoriale, al cambiamento delle correnti e delle maree che porta variazioni di temperatura e salinità.
Alcuni eventi eccezionali creati dalla sovrapposizione degli elementi naturali appena esposti possono impattare violentemente sulla vita del reef, causando addirittura la quasi completa distruzione dell’intera biocenosi.
Pensiamo ad esempio al fenomeno del Ninho che sul finire degli anni ’90 portò alla completa distruzione di molti tratti di barriera nel sud Pacifico, o agli estesi fenomeni di bleaching che interessano sempre più frequentemente la grande barriera corallina australiana.
Fortunatamente la vita riesce a tornare sul reef e laddove era rimasto il deserto, gli organismi pionieri creano nuovamente le condizioni perché la barriera possa prosperare.
La transizione di fase (phase shift), ovvero il processo che ripristina le condizioni favorevoli affinchè i coralli costruttori di barriera possano tornare a colonizzare un reef deteriorato, pare sia guidato non dai polipi corallini o dagli organismi sessili e bentonici, bensì dai pesci.
Si moltiplicano infatti in varie parti del mondo le evidenze sperimentali secondo cui la presenza dei pesci erbivori, in special modo acanturidi e pesci pappagallo, gioca un ruolo assolutamente basilare per garantire la salute a breve ed a lungo termine del reef corallino… vediamo come ciò avviene e come è stato possibile dimostrarlo.
Il caso di Moorea
Moorea è un’isola da sogno a 10 minuti di bimotore dall’aeroporto internazionale di Tahiti, nella Polinesia francese, praticamente al centro esatto dell’oceano Pacifico.
L’isola, di origine vulcanica, ha la forma di una W (o di una colomba, secondo gli isolani) ed è circondata da un esteso reef corallino, che forma una laguna larga da alcune decine ad alcune centinaia di metri.
Qui prospera una ricca comunità di barriera costituita da numerose specie di coralli costruttori di barriera, da migliaia di pesci e da innumerevoli specie di organismi bentonici.
Fotografia satellitare di Moorea, le parti di colore turchese sono le lagune coralline
Verso la fine degli anni ’80 il reef di Moorea venne devastato da estesi fenomeni di bleaching e dall’attacco di numerosi esemplari di stelle marine Acanthaster planci, dette anche “corona di spine”.
In seguito a questi eventi fu attivato un programma di monitoraggio e ricerca noto come Moorea Coral Reef Long-Term Ecological Research project per comprendere i meccanismi che presiedono la biocenosi del reef corallino e che governano la sua evoluzione a lungo termine.
Nel 2007 ho avuto modo di osservare personalmente alcune tecniche di ripopolamento messe in pratica presso la Baia di Cook a Moorea, finanziate anche grazie alla tassa di permanenza che ogni turista deve pagare per poter soggiornare sull’isola.
Il reef era pieno di pesci, ma abbastanza spoglio di coralli, che erano perlopiù presenti come scheletri ricoperti di alghe patinose… immaginate la mia sorpresa e il mio disorientamento nel vedere che, invece di sistemare talee di corallo, il progetto di recupero prevedeva il posizionamento di tane artificiali per i pesci.
A distanza di 7 anni, leggendo un documento dell’Università del Queensland, ho capito cosa stavano cercando di fare.
Posizionare coralli sarebbe stato del tutto inutile, perché le talee sarebbero state soffocate inesorabilmente dalle onnipresenti alghe, quindi si puntò sul ripopolamento ittico offrendo rifugio ai pesci erbivori, visto che i ripari naturali offerti dai coralli erano venuti meno.
Con il passare prima dei mesi e poi degli anni, i pesci non erano solo più grandi e meglio nutriti, erano via via in numero e di dimensioni maggiori, il numero delle specie aumentava in modo esponenziale e gli studiosi iniziarono a chiedersi da dove arrivassero tutti questi pesci.
Gli studiosi notarono che la prima zona del reef a ripopolarsi fu la cresta esposta alle onde, poiché questa zona è la nursery naturale per i piccoli, che proprio lì iniziarono la loro opera di pulizia, consentendo ai coralli di attecchire e ricominciare a crescere, e poi si spostarono in laguna.
Proprio nella laguna si assiste oggi alla rinascita dei coralli, con decine di migliaia di nuove colonie, che prosperano laddove i pesci hanno ripulito il substrato.
Le alghe infatti, in assenza di competitori e spinte dalla forte irradiazione solare, avevano preso il sopravvento e risultavano invincibili per i pochi coralli rimasti.
La grande barriera australiana
Situazione analoga a quella polinesiana si registrò lungo ampi tratti della grande barriera corallina australiana, interessati intorno al 1998 dal fenomeno del Ninho, che portò al surriscaldamento dell’acqua e al conseguente bleaching di vaste aree del reef.
Proprio in una di queste aree interessate dal totale sbiancamento delle sclerattinie, Orpheus island all’interno di una riserva marina gestita e monitorata dal Great Barrier Reef Marine Park Authority, gli studiosi approntarono un esperimento per comprendere la dinamica della transizione di fase del reef, ovvero del processo di rigenerazione della barriera a seguito di un eccezionale evento avverso.
Fu realizzata appena dietro al reef front una serie di gabbie lunghe e larghe alcuni metri, composte da 4 pali ben piantati nel substrato corallino e da reti metalliche con maglie abbastanza strette da far passare l’acqua ma non i pesci e con parte superiore aperta per consentire il normale irraggiamento solare. La superficie totale inclusa nelle gabbie era di 400 mq.
Nelle 4 figure possiamo vedere:
A – le gabbie poste sul reef flat
B – le fronde del sargasso che crescono all’interno delle gabbie
C – Le alghe corallie che ricoprono gli scheletri dei coralli morti o moribondi
D – le aree esterne alle gabbie, ripulite dai grandi erbivori
Le gabbia azzeravano la densità dei grandi pesci erbivori, per verificarne l’effettiva utilità come controllori della densità algale (micro e macroalghe); esternamente alle gabbie i pesci avevano densità uguale a quella naturale, trovandosi in zona protetta da divieto assoluto di pesca ed attività umane.
In un periodo di tre anni la superficie coperta dal corallo passò dal 10% al 20%, le colonie presenti infatti non solo aumentarono di dimensione ma anche di numero, colonizzando aree prima scoperte.
Al contrario, all’interno delle gabbie si assistette ad una drammatica proliferazione algale, che soppresse ogni organismo corallino presente. In particolare si assistette all’incontrollata proliferazione di un’alga corallina rossa, la Galaxaura subfructuosa, e del Sargasso, le cui fronde raggiunsero una lunghezza media vicina al metro.
A sinistra una griglia posta sul reef esternamente alle gabbie, a destra all’interno di esse.
I primi coralli che colonizzarono la nuda barriera furono differenti specie di Porites, soprattutto Porites cylindrica e varie specie di favidi, fra cui Goniastrea, Favia e Montastrea spp ; le Acropore arrivarono successivamente ed entro 3 anni la loro consistenza raggiunse il 23% della superficie coperta da coralli.
Concluso l’esperimento, le gabbie vennero rimosse e nel giro di soli 12 giorni la superficie coperta di alghe passò dal 53% al 13% per azzerarsi entro il trentesimo giorno.
I diagrammi mostrano che dove i pesci sono abbondanti, il Porites copre aree molto maggiori
Conclusioni ed applicazioni
Le barriere coralline in tutto il mondo si sono ridotte di circa il 40% soltanto negli ultimi 30 anni, una perdita mostruosa sia in termini ecologici, che economici, che umani, in quanto la barriera oltre alla biodiversità offre anche protezione alle coste contro le tempeste e una insostituibile risorsa economica ed alimentare per oltre un miliardo e mezzo di persone.
Il riscaldamento globale, l’acidificazione degli oceani dovuta all’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, l’inquinamento e ora anche la pesca incontrollata stanno mettendo a dura prova le barriere di tutto il mondo. A livello globale purtroppo si può ancora fare poco, ma a livello locale gli esperimenti di cui abbiamo appena accennato indicano la strada obbligata da percorrere, ovvero l’istituzione di riserve marine controllate in cui ogni attività di pesca, raccolta e cattura sia assolutamente vietata.
Tali riserve consentono di conservare le risorse ittiche sia come numero di specie che come numero di esemplari di ciascuna specie. La presenza dei grandi erbivori come gli acanturidi e i pesci pappagallo è assolutamente necessaria per l’esistenza stessa delle barriere coralline e deve quindi essere garantita.
Oggi, nei mari Caraibici dove la pesca incontrollata ha ridotto notevolmente la popolazione ittica, si assiste impotenti all’arretramento del reef corallino in favore delle praterie di alghe; gli studiosi della conservazione sperano di riuscire ad invertire la tendenza nel prossimo decennio istituendo parchi e oasi protette.
Come acquariofili che cosa possiamo fare?
Innanzitutto dobbiamo augurare ai progetti di conservazione di avere successo e, per quanto ci è possibile, dobbiamo cercare di dare una mano riproducendo coralli e pesci nei nostri acquari, preferendo agli animali acquistati gli abitanti di altre vasche dismesse, dirigendo i nostri acquisti su fornitori affidabili, che importano da paesi in cui vigono severe leggi di conservazione ambientale; preferiamo sempre i coralli coltivati (in oceano o in cattività) alle “selvatiche”.
Ricordiamo che la pesca sostenibile di esemplari per uso ornamentale è rispettosa del reef ed offre alle popolazioni indigene della barriera una sicura e costante fonte di reddito, spronandole a conservare la barriera, che diventa per loro l’analogo di un campo coltivato.
Ritengo sia un piccolo prezzo da pagare per un grande risultato.